Minimizziamo il Massimalismo Bitcoin
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Se segui l’evoluzione delle cryptocurrency da un po’ di tempo, ti sarai sicuramente imbattuto in un massimalista Bitcoin, ossia chiunque ritenga che l’unica vera blockchain è quella di Bitcoin e che tutto il resto del mondo crypto sia irrilevante. In questo articolo ho riassunto alcune mie riflessioni sul massimalismo Bitcoin e ho analizzato alcuni dei presupposti errati che i massimalisti portano a sostegno delle loro tesi e che spesso possono disorientare i neofiti.
Premesso che ritengo Bitcoin una delle blockchain più promettenti e con maggiore possibilità di affermazione e che, come crypto investitore, ho puntato molto su di esso, in questo articolo voglio esaminare, in modo quanto più possibile obiettivo e neutrale, alcune argomentazioni tese ad evidenziare alcune incongruenze dovute ad un’errata percezione dei suoi sostenitori, che spesso operano con un atteggiamento massimalista.
L’infallibilità di Bitcoin è un mito.
Alcuni argomenti trattati contengono dettagli tecnici e possono essere affrontati solo con un’opportuna comprensione dei meccanismi di networking e consensus di Bitcoin.
Bitcoin Maximalism
Il massimalismo Bitcoin è una sorta di “movimento” intorno al quale si raccolgono i supporter più intransigenti del network che:
- ritengono che Bitcoin sia è esperimento non riproducibile e unico;
- desiderano supportare il monopolio Bitcoin eliminando le alternative;
- ritengono che un ambiente in cui ci siano più crypto network in competizione è indesiderabile;
- ritengono che non abbia senso costruire nuove coin sui network esistenti o su nuovi network;
- ritengono che la ricerca di soluzioni decentralizzate alternative sia una dispersione di energie della community;
- trovano non etico il movimento degli altcoin.
Una definizione neutra e articolata di Bitcoin Maximalism può essere trovata qui: Investopedia — Bitcoin Maximalism, un’altra definizione meno gratificante ed appropriata può essere trovata in Urban Dictionary, UrbanDictionary — Bitcoin Maximalist.
Di fatto il massimalista Bitcoin ha un atteggiamento assolutista secondo il quale tutto ciò che è estraneo a questo ecosistema non ha dignità tecnica o addirittura presenta problemi etici.
Uno dei mantra principali dei Bitcoin Maximalist è la classificazione di qualunque progetto al di fuori dell’ecosistema Bitcoin come Scam.
Non bisogna essere necessariamente massimalisti Bitcoin per riconoscere che più del 90% dei progetti di tokenizzazione sia stato puro opportunismo commerciale se non truffe vere e proprie. A tal proposito ho scritto un articolo guida: Come valutare un progetto blockchain che fornisce strumenti di analisi utili a farsi un’idea meno emozionale su nuovi progetti crypto.
Bisogna riconoscere tuttavia che ci sono delle community che stanno portando dei risultati e delle alternative sane. Va considerato che anche gli esperimenti più improbabili portano implicitamente dei risultati: dimostrano alla community quali sono gli approcci che non funzionano.
Nonostante i difetti non si può negare che ci sono progetti che hanno saputo apportare benefici all’ecosistema blockchain. Progetti come come Ethereum e FileCoin hanno aumentato la consapevolezza verso l’ecosistema, alimentato una narrativa positiva nei confronti della decentralizzazione, fornito strumenti per il finanziamento di attività di ricerca e sviluppo volti a superare le correnti limitazioni delle tecnologie attuali.
Tutte le blockchain attuali hanno dei limiti
E questi limiti ne compromettono fortemente l’usabilità.
Semplificando si può dire che tutte le network blockchain esistenti:
- o hanno dei problemi di scalabilità che ne limitano l’adozione di massa;
- o hanno dei problemi di centralizzazione che ne limitano il Trust.
Infatti ad oggi, Agosto 2022, dopo oltre 13 anni dall’invenzione della decentralizzazione del trust, non esistono ancora killer app o servizi di massa su nessun network blockchain.
L’assenza di applicazioni disruptive dimostra che siamo ancora in una fase molto prematura di sviluppo tecnologico e sociale (non dimentichiamo che il grosso del valore di una blockchain sta nell’utilizzo che ne fa la sua community) e che c’è bisogno di esplorare soluzioni diverse, c’è bisogno di differenziazione e di competizione al fine di massimizzare l’innovazione.
Inoltre è necessario che le community comprendano e ripensino i limiti di una blockchain. Questi limiti teorici affliggono qualsiasi sistema distribuito, secondo quanto formalizzato da Brewer nel suo CAP Theorem e successivamente reinterpretato in chiave decentralizzata nel Blockchain Trilemma di Buterin.
In base a tali limiti, se si vorrà realizzare un’infrastruttura decentralizzata di cui possa beneficiare un’ampia fascia della popolazione umana, bisognerà necessariamente rinunciare all’attuale livello di decentralizzazione e aspettative connesse.
La buona notizia è che il Bitcoin, come vedremo più avanti, è (o almeno è stato) meno decentralizzato di quanto si racconti, e nonostante tutto ha dimostrato alti livelli di resilienza.
Bitcoin è veramente infallibile?
Tornando al tema principale, cerchiamo di esaminare quanto sia effettivamente infallibile il protocollo di Bitcoin ed il team che lo sviluppa, riprendendo le principali argomentazioni che utilizzano i massimalisti per supportare l’idea di superiorità del Bitcoin.
Infallibilità del team
Una delle argomentazioni principali del Bitcoin maximalist è che Bitcoin è superiore alle altre blockchain in quanto i suoi core dev sono dei fuoriclasse, e che in quanto tali non commettono errori nello sviluppo del protocollo.
In molti forum si parla dei founder di Bitcoin come di persone che presentano particolari skill di OpSec. Eppure ci sono stati dei bug rilevanti nei primi anni di operatività del network Bitcoin, simili ad altri bug spesso portati ad esempio dai massimalisti per screditare altri network.
Un esempio significativo per tutti è il Value Overflow Incident. Ecco una lista di tutte le vulnerabilità scoperte e risolte nel protocollo e nel client ufficiale Bitcoin: Common Vulnerabilities and Exposures.
La presenza di bug e di anomalie in sistemi distribuiti e complessi come una blockchain è un fenomeno perfettamente normale, risulta invece fazioso utilizzarlo come argomentazione per squalificare il lavoro degli altri network.
Ricordiamoci poi che Satoshi Nakamoto o è diventato un troll di punto in bianco o si è fatto sottrarre le credenziali email usando Thor in modo improprio, (Hacker hijacks Satoshi Nakamoto email), a dimostrazione del fatto che c’è spazio per la fallibilità anche tra i founder di Bitcoin.
L’anonimato di Satoshi è garanzia di sicurezza
La teoria in base alla quale l’anonimato del padre spirituale di Bitcoin, Satoshi Nakamoto, garantisca la sicurezza del protocollo e la stabilità della community, presenta diverse inconsistenze.
Al più si può affermare che l’anonimato di Satoshi alimenta un’aura di mistero, contribuendo alla costruzione di una sorta di brand identity.
Per cominciare oggi i core maintainer di Bitcoin sono conosciuti, nomi, cognomi e recapiti vari, quindi il protocollo è ancora soggetto a potenziali minacce esterne.
Dire che una tecnologia è sicura solo se i suoi creatori restano anonimi significa affermare che tutte le librerie usate per realizzare Bitcoin Core sono potenzialmente compromesse e quindi bitcoin è potenzialmente compromesso.
ECDSA, SHA256 sono tutti algoritmi creati da persone e agenzie con nomi e indirizzi, non per questo non sono stati impiegati in Bitcoin. L’unica garanzia che un algoritmo, un protocollo ed un software siano sicuri sono la ispezionabilità e la sufficiente capacità degli osservatori di rilevare rischi e falle volontarie o involontarie.
Una tecnologia non rimane neutrale se i suoi creatori restano anonimi
Con l’anonimato non si ha nessuna garanzia di neutralità, banalmente Satoshi Nakamoto potrebbe essere un team dell’NSA che sta conducendo un esperimento di ingegneria sociale, e non ci sono dati per smentire questa affermazione.
Si stima inoltre che Satoshi possegga oltre 1M di bitcoin, minati nei primi mesi di operatività del network, in cui era praticamente solo, il cui spostamento potrebbe risultare devastante per l’economia di Bitcoin. In caso si decida di capitalizzare tale cifra sarebbe molto meno rischioso rimanere anonimi piuttosto che avere un’identità legalmente perseguibile.
Rischio di compromissione del substrato hardware
Si parla della robustezza del Proof of Work e della sua infallibilità, ma non si riflette mai abbastanza sul fatto che il Bitcoin, così come tutte le altre blockchain esistenti, sottostanno ad un problema aperto di reliability del substrato hardware: tutti i computer del pianeta inclusi i nodi Bitcoin utilizzano processori provenienti da due produttori, Intel e AMD, entrambe società USA.
Non esiste alcuna garanzia che tali produttori, magari costretti ad accomodare gli interessi nazionali, non abbiano inserito delle backdoor per acquisire, se necessario, il controllo dei vari software.
Se questo problema è verosimile (e non sono il primo a domandarmelo: link1, link2 ), allora mi domando cosa faccia la community Bitcoin a tal proposito per tutelarsi. Dovrebbero quanto meno fare un’analisi del numero di miner che operano sulle due piattaforme hw e assicurarsi che siano distribuite il più possibile equamente (nell’ipotesi che non siano compromesse entrambe).
L’esperimento irripetibile
L’idea che la creazione di un nuovo ecosistema blockchain come Bitcoin sia irripetibile e quasi miracoloso, e che dietro al tentativo di creare nuovi ecosistemi si nascondano solo tentativi di scam è falso ed è già stato smentito dalla realtà.
Dopo anni dal concepimento di Bitcoin sono emersi nuovi ecosistemi indipendenti e autosufficienti come Zcoin, Monero, Ethereum, Cardano, Stellar, Polygon, Flow ed altri ancora, e molti di questi si stanno specializzando, aumentando le proprie chance di sopravvivenza.
Infallibilità del Proof of Work
Il mining, in breve, è un processo attraverso il quale i miner, ossia i nodi che detengono una copia completa del registro delle transazioni Bitcoin, competono per tenere costantemente in sicurezza la rete, stabilendo un univoco ordinamento temporale per le transazioni. I miner, in cambio di tale effort ricevono un premio che consiste nella generazione programmata di nuovi Bitcoin e nell’acquisire le fee di transazione delle transazioni che processano.
Il protocollo di mining prevede che i miner risolvano dei problemi computazionali complessi e che ne esibiscano la prova. Il metodo di mining che usa Bitcoin è detto Proof of Work (PoW). La risoluzione di tali problemi può essere eseguita in modo profittevole solo attraverso hardware specializzato ed è particolarmente dispendiosa in termini di energia elettrica, rispetto ad altri metodi di consensus che si sono sviluppati in seguito.
L’intera sicurezza del processo di mining si basa sul concetto di concorrenza e di ingordigia, che dovrebbe garantire che i miner siano sempre in competizione tra loro e che le loro azioni siano orientate sempre al profitto.
La decentralizzazione ed il concetto di trustless vertono sul concetto fondamentale che non esiste un’unica entità / organizzazione che controlla il Consensus, in quanto questo è partecipato da centinaia se non migliaia di entità separate ed indipendenti distribuite in tutto il mondo. Vedremo a breve che questo purtroppo è falso.
Il consensus basato sull’incentivo economico del PoW rende la rete infallibile, ma che succede se un’organizzazione con un’appropriata capacità di investimento decide di minare con un obiettivo diverso dal profitto?
Che succede ad esempio se uno Stato che dispone di ingenti risorse economiche ed industriali decide di entrare nella competizione per fini strategici?
Che succede se un Paese decide di sequestrare le infrastrutture di mining sul proprio territorio ed iniziare una strategia di mining con un obiettivo diverso dalla profittabilità?
Che i presupposti per avere un Consensus sicuro sono compromessi.
Il consensus basato sul Proof of Work è più sicuro e più democratico
In realtà il Proof of Work, almeno allo stato attuale, si presta ad avvantaggiare quei Paesi in piena sviluppo economico, con un’industria elettronica particolarmente sviluppata e/o con un costo dell’energia molto basso, mentre penalizza i Paesi occidentali, svantaggiati anche dalle proprie politiche energetiche mirate al contenimento dell’impatto ambientale.
Come le statistiche della distribuzione del consensus raccontano, ci sono dei Paesi più idonei di altri per acquisire quote di controllo dell’hash rate.
Molti credono che controllare il consensus significhi avere la possibilità di riscrivere la catena di blocchi, sovrascrivendo transazioni considerate finalizzate, ma questo determinerebbe la compromissione della credibilità del network.
Controllare il consensus non significa necessariamente eseguire un double spend e sottrarre quindi indebitamente valore, può significare più subdolamente definire una strategia di lungo termine che va ad avvantaggiare servizi blockchain graditi, a cui garantire un throughput di transazione maggiore e svantaggiare servizi sgraditi.
Una strategia di manipolazione non esplicita e quindi non distruttiva (dove per esplicita si intende un double spend attack) sarebbe estremamente più difficile da rilevare e dimostrare per il resto del network e garantirebbe ampi margini di manovra all’attacker.
Centralizzazione e Cina, un problema irrisolto
La profittabilità è, in condizioni di mercato, il primo indice che determina la rilevanza di un’area geografica nell’industria del mining. La profittabilità dipende da quattro fattori principali:
- il costo dell’hardware dedicato che va acquisito per le operazioni;
- il costo dell’energia elettrica per alimentare tale hardware;
- la difficulty del network, determinata da quanti sono intenzionati a partecipare alla corsa al mining;
- Il valore del Bitcoin nelle principali valute internazionali: gli asset necessari a finanziare le operazioni di mining vanno acquistati in fiat.
Tutti questi fattori hanno avvantaggiato per anni la Cina su tutti gli altri Paesi: la capacità di produzione di chip dedicati, il costo della manodopera specializzata nell’elettronica, il costo dell’energia elettrica tra i più bassi al mondo, l’interesse per il crescente ceto medio cinese nelle cryptocurrency, anche come strumento per sottrarsi all’ingerenza della propria banca centrale.
Come conseguenza, oltre il 70% del mining di Bitcoin è stato localizzato in Cina fino al 2021, quando si è verificato un ban governativo.
Questa localizzazione ha sollevato per anni molte perplessità intorno alla reale decentralizzazione del Bitcoin, bisogna ricordare infatti che questa quantità di Consensus è stata in mano a meno di venti imprenditori.
Attualmente (Agosto 2022) lo stato del mining in Cina è sensibilmente cambiato, dopo il ban governativo delle attività di mining nel luglio 2021, i miner più grandi hanno trasferito le proprie attività all’estero, principalmente in Canada, USA e Kazakistan.
I miner più piccoli invece hanno iniziato a nascondersi, tecnicamente è infatti possibile, usando dei proxy, evitare di mostrare la reale localizzazione geografica delle proprie operazioni, risulta più complicato evitare di far notare i consumi elettrici elevati. La Cina è così passata in pochi mesi dal detenere oltre il 70% dell’hash power di Bitcoin (con picchi al 75%) ad un attuale 21% dichiarato, anche se si sospetta che sia superiore, a causa delle strategie di offuscamento adottate dai miner che sono rimasti sul territorio.
La Cina avrebbe potuto acquisire il controllo del Bitcoin in 24h
Inteso che per la Cina mi riferisco alle autorità e quindi al governo cinese, il Bitcoin ha corso il rischio concreto che una fetta molto superiore al 50% dell’hash power mondiale fosse acquisita sotto il controllo di un’unica entità politica in un tempo strettissimo.
Tra l’altro un livello di centralizzazione del genere con l’attuale protocollo non sarebbe stato tecnicamente rilevabile, anche se un’operazione coercitiva su larga scala avrebbe avuto un’alta probabilità di diventare di dominio pubblico.
Se la Cina avesse voluto coordinare con un unico mining pool l’hash power presente sul suo territorio, che ha toccato livelli superiori al 70% dell’hash power mondiale, avrebbe potuto avvantaggiare i suoi servizi crypto finanziari, lasciando il resto del mondo a competere per accaparrarsi lo spazio disponibile nei blocchi rimanenti.
Un singolo Paese governato da un’autocrazia che controlla il consensus di Bitcoin non corrisponde sicuramente a quella visione di rinnovata equità sociale ed economica che avrebbe dovuto portare la rivoluzione decentralizzata.
Oggi in Cina risiede solo una minoranza dell’hash power ma questo non significa che domani non si possa tornare ad una posizione di maggioranza, i vantaggi competitivi sono ancora tutti presenti.
Perché un Paese dovrebbe voler compromettere la neutralità di Bitcoin?
Ci possono essere molti motivi:
- controllare la fuga di capitali verso l’estero attualmente realizzata attraverso operazioni di mining;
- erogare un favore a qualche altra potenza in difficoltà con il fenomeno crypto in cambio di qualche beneficio;
- compromettere la credibilità delle economie decentralizzate che spaventano tutte le banche centrali.
Come avrebbe potuto farlo? Il mining è un’iniziativa privata.
Dipende dal Paese, nel caso della Cina esistono diversi presupposti. La Cina è un’autocrazia, i diritti dei privati e delle imprese non sono gli stessi di cui disponiamo in Occidente. L’ingerenza dello stato sui privati è totale e discrezionale. Se lo Stato decidesse di sequestrare tutte le mining farm sul proprio territorio, nessun tribunale e nessuna disobbedienza civile potrebbero impedirlo.
Le mining farm in Cina sono monitorate almeno dal 2019, quando il governo ha iniziato a dimostrare attenzioni nei confronti di queste attività, tutti gli impianti più grandi sono già censiti, ed in generale non è difficile individuare attività così energivore con qualche controllo incrociato presso le compagnie di distribuzione dell’energia elettrica.
Sequestrare una mining farm e dirottare tutto l’hash power prodotto verso un mining pool predisposto a livello governativo è un’operazione che richiede forse un paio di agenti per ogni farm.
Quanto può richiedere l’organizzazione di un’operazione del genere? Qualche settimana di pianificazione. Quanto può richiedere l’esecuzione di tale operazione, il sequestro contemporaneo di tutte le principali mining farm censite? Qualche ora. Tecnicamente fattibile, senza alcun dubbio.
Inoltre va tenuto in considerazione una limitazione tecnologica di non poco conto: l’origine fisica dell’hash power non può essere determinata, di conseguenza non si può verificare né bandire. Un miner fisicamente localizzato in un dato Paese potrebbe usare, per firmare i propri blocchi, l’hash power generato fisicamente in qualsiasi posto del mondo senza che questo possa essere rilevato: il mining non può essere quindi sottoposto facilmente a sanzioni o restrizioni geografiche.
I rischi della centralizzazione del PoW
Cosa succederebbe se uno Stato un giorno dovesse minacciare un accentramento come si è verificato in passato?
Un argomento interessante che mi piacerebbe sentire discutere dai massimalisti è come si farà a convincere le economie occidentali a trasferire gran parte dei propri servizi (come auspicano i sostenitori di Bitcoin) sapendo che esiste un forte rischio di concentrazione del controllo.
Dato che la principale “value proposition” di Bitcoin è la resilienza o antifragilità, come facciamo a convincere le grandi economie a spostarsi sull’autostrada Bitcoin sapendo che molto rapidamente il 70% dei caselli potrebbe tornare sotto il controllo di un unico governo, che quindi può decidere chi ha il diritto di passare, a quali condizioni e quale tariffa applicare?
La buona notizia
La prima buona notizia è che la Cina non si è dimostrata interessata, almeno per ora, nel perseguire tali strategie di controllo. Anzi ha adottato una serie di misure che hanno sortito un effetto contrario. Oggi, agosto 2022, l’hash power risulta molto ben distribuito a livello mondiale, sicuramente meglio di 12 mesi prima.
Questo non significa che, se un giorno le economie mondiali dovessero essere fortemente influenzate dalle cryptocurrency, il governo cinese non possa rimuovere i vincoli attualmente presenti e tornare ad essere il luogo più florido per lo sviluppo di business di mining basati sul PoW.
Conclusioni
Se una blockchain come Bitcoin dovesse diventare un giorno un’infrastruttura determinante per l’economia dei Paesi, i vari governi, aziende e multinazionali potrebbero reagire con una corsa all’acquisizione delll’hash power sul proprio territorio, una sorta di “corsa agli armamenti” delle cryptocurrency.
Da grandi interessi scaturirebbero anche imponenti strategie di controllo, mirate al raggiungimento di una condizione di maggioranza, acquisendo così la capacità di influenzare il comportamento del protocollo o di eseguire un attacco, ossia il tentativo esplicito di invalidare il network.
Le strategie di controllo sarebbero più efficaci se strutturate per agire nel lungo periodo, una strategia di attacco sarebbe immediatamente riconoscibile da tutti ma con effetti, pur devastanti, di breve termine.
Infatti in caso di un attacco la community potrebbe reagire con uno snapshot del ledger, e quindi dello stato all’ultimo blocco ritenuto sicuro, per poi migrare le operazioni su un meccanismo di consensus piú robusto, che magari includa la certificazione dell’hash power da parte dei miner, anche se tale approccio richiederebbe un livello di coordinamento e quindi di centralizzazione da parte della community che al momento per Bitcoin non è ipotizzabile.
Di certo, in caso di attacco o di acquisizione del controllo della chain da parte di un governo, la credibilità del Proof of Work sarebbe compromessa per sempre, ed il network impiegherebbe mesi per tornare a funzionare, ammesso che si trovi una soluzione sufficientemente condivisa da tutti gli attori. La soluzione più semplice rimane sempre il passaggio ad un sistema di consensus meno dipendente dalle capacità industriali.
La risposta più plausibile e sostenibile rimane il ricorso a metodi di consensus meno energivori come quelli basati su Proof of Stake (PoS), attualmente oggetto di ricerca di tutte le blockchain di seconda generazione.
Bisogna riconoscere che ci sono delle community blockchain con progetti e piani di sviluppo per i loro network che risultano onesti e sfidanti, che si impegnano genuinamente nell’individuare soluzioni performanti ma nel rispetto della governance.
Personalmente sono lieto di vedere dei progetti spendere ingenti risorse per esplorare spazi di soluzione che che la community Bitcoin non è interessata ad investigare, e non capisco la posizione di coloro che si definiscono innovatori e che si ingegnano per screditare ogni tentativo che ritengono sia troppo lontano dalla loro ortodossia.
Chiunque crede nella decentralizzazione dovrebbe accettare con entusiasmo che più possibilità vengano esplorate, per non lasciare dubbi su quali siano le soluzioni ottimali per le varie esigenze industriali, finanziarie, monetarie e speculative. Non dimentichiamoci infatti che raramente esiste uno strumento adatto a tutte le necessità.
Ritengo inoltre che gli ortodossi troppo spesso trascurino gli insegnamenti dalla breve ma densa storia dell’Information Technology, che ci mostra che le soluzioni di mass adoption non sono sempre quelle tecnologicamente più eleganti o robuste, ma sono quelle che trovano la giusta combinazione fra tecnologia, execution e narrativa. E al momento in quanto a narrativa e ad execution ritengo che Bitcoin sia piuttosto indietro.
Grazie!
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